Terza via: Battaglia del grano e Quota 90

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Con il ministro delle finanze Alberto de Stefani, tra il 1922 e il 1925, il fascismo adottò una politica economica liberista.
Col suo successore Giuseppe Volpi dal 1925 al 1928, adottò una politica protezionista, che mirava a stabilizzare la moneta e ad un maggiore intervento dello Stato nell’economia.

In Italia, negli ultimi decenni, si era accentuato lo squilibrio fra il consumo e la produzione nazionale del grano, tanto che l'importazione, di circa 25 milioni quintali, costava annualmente intorno a 4 miliardi di lire.

L’obiettivo era il raggiungimento dell’autosufficienza granaria, mantenendo identica la superficie coltivata.
Tale risultato fu, in parte, conseguito al Nord attraverso la massiccia introduzione di concimi chimici e macchine agricole.
Al contrario, nel Mezzogiorno l’aumento dei rendimenti avvenne attraverso l’estensione delle zone coltivate.

Questo avrebbe reso indipendente l'Italia e l'avrebbe messa al riparo di fronte ad una eventuale crisi nei rapporti a livello internazionale.

Per questo motivo, il 14 giugno 1925 venne annunciata la “battaglia del grano”, supportata da una vasta propaganda condotta dal governo, spesso con la presenza dello stesso Mussolini, dai giornali, dalle scuole e persino dai parroci delle campagne.

Il 1931, fu l’anno dell’annuncio della “vittoria sul grano”.
Con la produzione di 81 milioni di quintali, l’Italia, per la prima volta, coprì quasi per intero il suo fabbisogno di cereali.

La seconda "battaglia" fu quella avviata nel 1926 la quale si pose come obiettivo la rivalutazione della lira. Nel 1925 si era arrivati a un cambio di 150 lire per una sterlina.

Mussolini, sia per contenere l’inflazione, sia per rafforzare e dare autorevolezza al regime all’interno e all’esterno della nazione, annunciò una manovra deflazionistica, detta "quota 90", che fissava il cambio con la sterlina a 90 lire.
La sua attuazione fu resa possibile dalla banca statunitense Morgan, che concesse al governo italiano un prestito di 100 milioni di dollari.

Seguirono una diminuzione dei prezzi, per effetto della politica deflazionistica e per il minor costo delle importazioni, e la rivalutazione della lira, che recuperò il proprio potere di acquisto.

La manovra deflazionista ebbe alti costi sociali per i ceti meno abbienti, in quanto l’attesa diminuzione del costo della vita, pari solo all’1,3%, non compensò il drastico taglio dei salari, oscillante tra il 10 e il 20% , e mise in crisi le piccole aziende agricole a causa del calo dei prezzi e dalla restrizione del credito.
Furono invece tutelati i risparmi dei ceti medi, che continuarono quindi a garantire il consenso al regime.
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